giovedì 10 febbraio 2011

Una crisi agricola significa crisi alimentare mondiale


di Anna Adorno *

Mercoledì 2 febbraio 2011 il consiglio comunale di Moncrivello (VC)  ha respinto la richiesta circa l’apertura di una cava di ghiaia e sabbia in località Cascina Bruciata. Il progetto aveva già ottenuto l’approvazione della Provincia di Vercelli e della Regione Piemonte. Ma l’ultima parola spetta al Comune: e il consiglio comunale ha detto no approvando un'apposita delibera. Nella quale si afferma la vocazione agricola e turistica di Moncrivello: una vocazione da recuperare, incentivare e rafforzare. Una vocazione che l’apertura di una cava indebolirebbe. Moncrivello si aggiunge così ad altri Comuni della zona, i cui cittadini e i cui amministratori sono diventati sempre più consapevoli dei tanti danni prodotti dalla coltivazione delle cave e dall’apertura di discariche. In alcuni casi i consigli comunali hanno già ufficialmente espresso la loro contrarietà. Ad esempio, recentemente il consiglio comunale di Saluggia ha respinto il progetto di apertura di una cava in località Molino. Santhià non ha più rinnovato l’autorizzazione a cavare alla società Green Cave. Tronzano ha rifiutato il riempimento di una discarica. La conferenza dei servizi della Provincia di Vercelli ha rifiutato l’estensione dei codici di conferimento per i rifiuti provenienti dalla ex Sisas di Pioltello- Rodano.

Sono molte, e ben note, le buone ragioni per impedire l’apertura di nuove cave o per non autorizzare il proseguimento della coltivazione di cave già esistenti.

1) Quasi sempre l’attività di cava, nonostante le rassicurazioni, finisce per
intaccare le falde acquifere. In condizioni normali l’acqua di varia provenienza
che arriva sui nostri campi è, in misura più o meno grande, inquinata: ad
esempio, l’acqua di irrigazione trascina con sé gli antiparassitarie e i concimi
chimici; quella piovana porta a terra i veleni presenti nell’aria, e così via. Ma lo strato superficiale del terreno fortunatamente esercita una funzione di filtro:
trattiene le impurità o le distrugge attraverso l’azione dei microrganismi, e lascia discendere verso le falde un’acqua relativamente sana. Quando però un’impresa comincia l’attività di cava, per prima cosa asporta proprio quei primi metri di terreno filtrante: per conseguenza, quando il buco è stato scavato, l’acqua si raccoglie non purificata sul fondo della cava e, raggiunta la falda, la inquina.
2) il transito degli autocarri, che si protrae spesso per decenni, produce
inquinamento, aumento del traffico, pericolo nelle nostre strade;
3) una cava non ripristinata degrada il paesaggio che prima conservava la sua dignità o la sua bellezza
4) anche solo per queste ragioni i terreni e gli edifici della zona perdono valore: tutto il paese ci perde;
5) quando un Comune consente l’apertura di una cava si sa dove si comincia ma non si sa come va a finire. Generalmente il Comune, attraverso una convenzione con l’impresa cavatrice, permette l’apertura di una cava solo di modeste dimensioni e solo per pochi anni. Ritiene così di mettersi al sicuro e di limitare i danni. Ma quando si insedia in un posto, una società cavatrice raramente “molla l’osso”. L’esperienza insegna che spesso, alla scadenza della convenzione, l’impresa riesce ad ottenere il rinnovo. Spesso ottiene anche l’autorizzazione ad allargare e ad approfondire la cava. Gradualmente, paesi un tempo di fiorente agricoltura diventano “terre di cave”: tutti ci perdiamo;
6) in genere la convenzione tra il Comune e la società cavatrice impone che la società medesima, una volta scaduta l’autorizzazione, ripristini le precedenti condizioni del territorio. Anche in questo caso l’esperienza insegna che spesso le società riescono a sottrarsi all’impegno. Il “buco” rimane lì, magari per anni, finché un’altra società, oppure la stessa, chiede il permesso di trasformarla in una discarica. Che porta nuovo inquinamento del terreno, delle acque e dell’aria, e per conseguenza ancora danni alla salute. Così intere zone agricole e sane diventano depositi di veleni. Tutti ci perdiamo in salute.
7) ma anche se il Comune riesce miracolosamente ad ottenere dall’impresa il
ripristino dei terreni, anche se riesce fortunatamente ad imporle di ricoprire la
cava con terra agricola buona e adatta, va ricordato che un terreno ripristinato con terra da riporto impiega anni prima di riacquistare la sua fertilità.
8) C’è inoltre un altro danno prodotto dalle cave che talvolta viene sottovalutato. La perdita di fertili terreni agricoli, trasformati in aree inquinate di cave e discariche, costituisce un grave pericolo economico per il nostro futuro. Le previsioni di autorevoli istituzioni internazionali sempre più spesso lanciano l’allarme: corriamo il rischio di sprofondare in una crisi agricola mondiale, che significa una crisi alimentare. Aumentano i consumi in grandi paesi emergenti come la Cina, e la produzione agricola mondiale non riesce a soddisfare la domanda. I prezzi sono destinati ad aumentare. Salirà anche il prezzo della pasta, della frutta e della verdura che acquistiamo quotidianamente facendo la spesa. Per questo occorre preservare accuratamente i terreni agricoli che ci restano e favorire l’agricoltura. Continuare a distruggere terreni agricoli pregiudica il futuro dei nostri figli. L’allarme più recente è stato lanciato dalla FAO. Ma ormai da anni, anche nel nostro paese, associazioni come Slow Food di Carlo Petrini, e le stesse associazioni dei coltivatori, lanciano il medesimo appello: salviamo i terreni agricoli che ci sono rimasti.

Si tratta di un discorso importante per le nostre zone, del Vercellese e del
Biellese, che sono tradizionalmente aree agricole. Comuni come Moncrivello
sono stati per secoli produttori del grano e della vite: questo paese ha
addirittura un vino con etichetta importante, il passito erbaluce. A partire dal
XIX secolo, dopo la costruzione del Canale Cavour e dei successivi, a queste
antiche coltivazioni si sono aggiunti in molti Comuni la meliga, la frutta, gli
ortaggi, e nella Bassa, il riso. Poi, negli ultimi decenni, lentamente l’agricoltura è stata via via espropriata. Ma ora, di fronte ad un incerto futuro economico, è un delitto continuare a distruggere i nostri campi. Questi campi sono la nostra ricchezza. Una ricchezza che abbiamo qui a portata di mano. Domani i nostri figli potranno coltivarli senza lasciare i loro paesi, senza andare a cercare altrove un incerto lavoro. Anche per quest’ultima ragione bisogna dire basta alle cave indiscriminate. Certo il discorso non finisce qui, e dovrà venire ripreso e ampliato. Qualcuno potrebbe infatti obiettare che le cave da qualche parte bisogna pur farle. Noi rispondiamo che vi sono paesi in Europa, come la Germania, che cercano di rallentare l’apertura di nuove cave: incentivano il riuso dei materiali da demolizione, alzando contemporaneamente le tariffe ai cavatori, che in Italia sono basse.

Ma forse la domanda decisiva, che tutti dobbiamo farci, è ancora un’altra: è
veramente necessario aprire continuamente nuove cave? L’Italia è un paese
piccolo e montagnoso, e le terre pianeggianti sono poche. Ma in pochi decenni questi terre sono state riempite di case, capannoni, strade, autostrade, viadotti, svincoli, rotonde, e così via. Fino ad un certo punto tutto ciò ha voluto dire ricchezza e benessere per tutti. Ma ora forse si è andati oltre. In soli quindici anni, tra il 1990 e il 2005. una superficie grande come il Lazio e l’Abruzzo messi insieme è stata – circa 3 milioni di ettari – è stata coperta da una costruzioni e infrastrutture. Dobbiamo proseguire così? O non sarebbe saggio fermarci? Le fila di capannoni vuoti al posto di una sana agricoltura ci danno una prima risposta.

* del Movimento Valledora    3 febbraio 2011

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