7 novembre 2011.La scorsa settimana è successo. Ebbene sì: la classica goccia ha fatto traboccare il vaso! Il vaso della tolleranza nei confronti degli ordini professionali. Per cominciare mi presento. Sono Marinella Robba, istruttore direttivo presso un Ente pubblico, laureata in giurisprudenza all’Università di Torino, abilitata all’esercizio della professione di avvocato ed iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti (elenco pubblicisti) dal 1995 al 2010. Attualmente sono direttore editoriale del giornale animalista Pelo & Contropelo, attività che svolgo nel tempo libero con una passione infinita. Premesso che oggi sono molto contenta di lavorare per la pubblica amministrazione, anni fa pensavo di realizzare un percorso professionale diverso, che mi ha portato ad avere alcune esperienze deludenti con gli ordini professionali.
Ma partiamo … dalla fine! Come dicevo, una mattina della scorsa settimana mia madre mi telefona dicendo che l’architetto a cui mio zio aveva conferito autonomamente l’incarico per una perizia relativa ad alcuni immobili ereditati pretendeva da lei il pagamento di metà della parcella, altrimenti avrebbe fatto scrivere dall’Ordine degli Architetti. Quando me l’ha raccontato il rancore verso gli ordini professionali, da troppo tempo sopito, si è risvegliato più veemente che mai. Proprio così: adesso il cittadino deve temere la minaccia degli ordini professionali, come se rischiasse provvedimenti disciplinari da un ente con cui non ha niente da spartire. Certamente è una frase d’effetto nei confronti di chi non ha ben chiaro il potere che può esercitare un ordine professionale nei confronti del cittadino non iscritto … cioè zero assoluto. Indubbiamente la letterina dell’ordine professionale non costa come il ricorso per decreto ingiuntivo di un avvocato necessario per ottenere il pagamento della parcella (sempre che sia dovuto!) e se sortisce i suoi effetti perché il malcapitato si spaventa … tanto di “risparmiato” per il professionista! Invece di preoccuparsi tanto della buona fede contrattuale dei cittadini sarebbe molto più utile se gli ordini professionali si concentrassero sulla regolarità fiscale dell’attività professionale svolta dai loro iscritti.
Vi racconto le mie vicissitudini con gli ordini professionali … praticamente una telenovela, che spero abbiate la pazienza di leggere fino in fondo. Dopo aver compiuto la pratica per più di due anni in una redazione, nel 1995 presento all’Ordine Giornalisti Piemonte l’istanza per l’iscrizione nell’elenco pubblicisti, che viene deliberata il 23 marzo dello stesso anno. Per un po’ di tempo collaboro per la rivista Informa Giovani edita dal Comune di Torino. In seguito vinco un concorso pubblico, la rivista cessa le pubblicazioni e io sospendo l’attività giornalistica, perché è difficilissimo trovare una redazione che paghi le collaborazioni. Continuo, tuttavia, a versare regolarmente all’Ordine la quota annuale di iscrizione. Negli anni 2008 e 2009 ricevo un paio di lettere da parte dell’Ordine Giornalisti Piemonte in cui mi veniva comunicato che era in corso la revisione degli iscritti (mai fatta prima!) e che avrei dovuto produrre la documentazione relativa all’attività svolta nei tre anni precedenti, incluse le copie dei documenti fiscali comprovanti i compensi percepiti. Non avendo niente da presentare mi sono subito rassegnata all’imminente cancellazione dall’Albo e non ho risposto alle richieste poiché non avevo niente da dichiarare. Alla fine del 2009, inaspettatamente, mi viene proposto l’incarico di direttore responsabile di una nuova testata giornalistica. Mi affretto, pertanto, a comunicarlo via fax all’Ordine dei Giornalisti, a dare le dovute comunicazioni all’Ente pubblico presso cui lavoravo e a chiedere all’Ordine medesimo il certificato di iscrizione nell’elenco pubblicisti, che deve essere presentato in Tribunale per ottenere la registrazione del periodico. Il certificato viene rilasciato senza alcun problema, al costo di 100,00 euro per “diritti di segreteria”. Il giornale viene regolarmente registrato presso il Tribunale di Torino e io ne divento il direttore responsabile. Fin qui nessun problema. Il 7 gennaio 2010 arriva la doccia fredda. Un ufficiale giudiziario mi notifica la deliberazione di cancellazione dall’Albo per inattività professionale. Notare: il Consiglio Regionale dell’Ordine delibera la cancellazione il 1° dicembre 2009 e il certificato di iscrizione viene rilasciato il 18 gennaio 2010. In seguito mi verrà spiegato che il certificato era stato rilasciato per errore! Peccato che nel frattempo io l’avessi già portato in Tribunale per la registrazione del giornale. Contatto l’allora Presidente del Consiglio Regionale dell’Ordine, Sergio Miravalle, spiegandogli la situazione e aggiungendo, inoltre, che stavo progettando in collaborazione con un grafico libero professionista di dare vita anche ad un periodico animalista, Pelo & Contropelo appunto. Imploro letteralmente di non cancellarmi. Miravalle mi risponde che ormai non si poteva più tornare indietro perché la cancellazione era già stata deliberata. Comunque avrei potuto impugnare il provvedimento presentando ricorso al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Aggiunge anche una frase del tipo «stia tranquilla, anche se ha fatto male a non rispondere alle lettere della revisione, non siamo così cattivi». Rispondere … e per dire cosa? Che non avevo nessuna ricevuta di pagamento? Oppure avrei dovuto presentare dichiarazioni false? Morale della favola: il Consiglio Nazionale respinge il ricorso il 25 marzo 2010. L’impugnazione mi viene a costare più di 300,00 euro di tasse destinate in parte al Consiglio regionale e in parte a quello nazionale. Senza contare gli ulteriori 100,00 euro che il titolare della testata ha nuovamente dovuto pagare per il rilascio del certificato di iscrizione per il nuovo direttore responsabile, perché ovviamente, a seguito della cancellazione, sono stata sostituita perdendo così definitivamente l’opportunità. Per essere esaustiva aggiungo al conteggio le quote di iscrizione versate all’Ordine in 15 anni, praticamente per niente.
Ma la telenovela continua, perché dovevo ancora lottare per Pelo & Contropelo, che per nascere aveva bisogno del suo direttore responsabile e della relativa registrazione in Tribunale. L’art. 41 c. 3 L. 69/63 prevede che non possa più essere cancellato per inattività professionale il giornalista che abbia almeno 15 anni di iscrizione all'Albo. Acquista quindi un diritto incondizionato all’iscrizione a tempo indeterminato. Nelle more del ricorso maturo l’anzianità di 15 anni, perché l’iscrizione era stata deliberata il 23 marzo 1995 e il ricorso viene respinto con decisione del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti n. 46/2010 del 25 marzo 2010. Lo faccio immediatamente presente all’Ordine, ma niente da fare. Mi viene risposto che la revisione era precedente e quindi la norma non era applicabile. In seguito sono venuta a sapere che una pubblicista, iscritta dal 1995 come me, non è stata cancellata anche se non era in grado di produrre la documentazione richiesta solo perché la revisione, in quel caso, era avvenuta dopo il 15° anno di iscrizione (presumo dipenda dalla lettera con cui inizia il cognome). Tutto questo a discapito dell’applicazione dell’art. 3 della Costituzione, che prevede uguali diritti per tutti! Non si capisce inoltre perché proprio 15 anni e non 10 o 20 anni. Sicuramente la norma avrà una sua ratio o almeno si spera! Nonostante le avversità escono i primi numeri di Pelo & Contropelo di cui divento direttore editoriale, ma non direttore responsabile visto che ormai la cancellazione è diventata effettiva. Non mi arrendo e torno alla carica nel dicembre 2010 con una lettera con cui chiedo la reiscrizione all’Albo ai sensi dell’art. 42 c. 1 L. 69/63 che dispone “il giornalista cancellato dall'Albo può, a sua richiesta, essere riammesso quando sono cessate le ragioni che hanno determinato la cancellazione”. Ovviamente allego alla lettera le copie dei primi due numeri del giornale. Non ricevo risposta. Lo scorso ottobre è uscito il sesto numero di Pelo & Contropelo con la mia più grande soddisfazione visto i temi importantissimi che ho trattato (vivisezione, strage di elefanti in Africa, caccia ecc.). Il giornale, che ora ha diverse migliaia di lettori, dalla scorsa primavera è passato dalle iniziali quattro pagine alle attuali otto.
A questo punto è inevitabile una riflessione di carattere generale: così facendo l’Ordine dei Giornalisti di fatto limita l’esercizio della libertà di stampa. Un valore assolutamente da tutelare in una democrazia e che io ho potuto attuare solo grazie al fatto che ho trovato una pubblicista che ha accettato di ricoprire l’incarico di direttore responsabile di Pelo & Contropelo. Ma se non l’avessi trovata? Avrei dovuto rinunciare a dare informazioni sulla sofferenza degli animali, su argomenti che hanno un rilievo sociale e che interessano una buona parte della popolazione italiana.
La mia prima esperienza deludente con gli ordini professionali, risale però al 2003 quando, sostenuto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, tento di iscrivermi all’Albo degli Avvocati di Torino. Con tutte le più rosee speranze per il mio futuro professionale mi reco all’Ordine degli Avvocati e lì mi viene detto che, essendo dipendente della pubblica amministrazione, per iscrivermi all’Albo avrei dovuto chiedere il part-time al 50 per cento. Immediatamente presento all’Ente presso cui lavoravo l’istanza per la riduzione dell’orario al 50 per cento, che mi viene accordata senza difficoltà. Produco tutta la documentazione all’Ordine degli Avvocati, ma l’iscrizione viene respinta perché nel frattempo era stata emanata la norma che rendeva completamente incompatibile l’esercizio della professione di avvocato con l’impiego pubblico. Norma che riguarda tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, eccetto i docenti universitari che pur avendo un contratto di lavoro subordinato con un ente pubblico possono esercitare indisturbati la professione forense (sempre in palese violazione dell’art. 3 della Costituzione!). Anche in questo caso la deliberazione mi viene notificata tramite ufficiale giudiziario, tanto per enfatizzare un pochino il rigetto (non sembra ma vedersi arrivare a casa gli ufficiali giudiziari fa un certo effetto!). A questo punto, per esercitare la libera professione, non mi restava che rinunciare all’impiego pubblico, con ovvi problemi per il mio sostentamento, visto che quando si avvia un’attività in proprio, senza l’aiuto di nessuno, i guadagni non sono immediati, anzi spesso si fanno attendere non poco e qualche volta purtroppo non arrivano neanche. Scartata questa soluzione, nel mio caso impraticabile (a meno che nel frattempo non mi fosse capitato un pretendente facoltoso da sposare, come è stato suggerito simpaticamente da qualcuno tempo fa a tutte le giovani donne!), decido di avviare l’attività come semplice consulente legale, visto che ormai ero già in part-time e percepivo solo metà dello stipendio. Dentro di me penso «ci provo lo stesso». Ma è facilmente comprensibile come sia penalizzante non poter utilizzare il titolo di avvocato su biglietti da visita e lettere, senza poi considerare la totale preclusione al patrocinio legale. Il tentativo quindi fallisce e devo dire, viste le premesse alquanto scoraggianti, forse non è mai neanche partito! Questo però è un problema che riguarda solo gli avvocati, perché ingegneri, architetti, psicologi, giornalisti ecc. possono iscriversi senza problemi ai rispettivi albi professionali ed esercitare anche la libera professione, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni dall’ente pubblico presso cui lavorano. Per anni, infatti, sono stata iscritta a quello dei giornalisti pur lavorando nella pubblica amministrazione come impiegata amministrativa. C’è chi mi ha detto «potevi evitare di dichiarare all’Ordine degli Avvocati il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Sei stata poco furba». Mi chiedo perché per restare iscritta ad un albo professionale si sia quasi costretti a presentare carte false e per iscriversi ad un altro si debba omettere informazioni. Mi piace pensare che in Italia si possa ancora agire alla luce del sole, senza sotterfugi. Vorrei che fosse così per tutti.
Marinella Robba
Ma la telenovela continua, perché dovevo ancora lottare per Pelo & Contropelo, che per nascere aveva bisogno del suo direttore responsabile e della relativa registrazione in Tribunale. L’art. 41 c. 3 L. 69/63 prevede che non possa più essere cancellato per inattività professionale il giornalista che abbia almeno 15 anni di iscrizione all'Albo. Acquista quindi un diritto incondizionato all’iscrizione a tempo indeterminato. Nelle more del ricorso maturo l’anzianità di 15 anni, perché l’iscrizione era stata deliberata il 23 marzo 1995 e il ricorso viene respinto con decisione del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti n. 46/2010 del 25 marzo 2010. Lo faccio immediatamente presente all’Ordine, ma niente da fare. Mi viene risposto che la revisione era precedente e quindi la norma non era applicabile. In seguito sono venuta a sapere che una pubblicista, iscritta dal 1995 come me, non è stata cancellata anche se non era in grado di produrre la documentazione richiesta solo perché la revisione, in quel caso, era avvenuta dopo il 15° anno di iscrizione (presumo dipenda dalla lettera con cui inizia il cognome). Tutto questo a discapito dell’applicazione dell’art. 3 della Costituzione, che prevede uguali diritti per tutti! Non si capisce inoltre perché proprio 15 anni e non 10 o 20 anni. Sicuramente la norma avrà una sua ratio o almeno si spera! Nonostante le avversità escono i primi numeri di Pelo & Contropelo di cui divento direttore editoriale, ma non direttore responsabile visto che ormai la cancellazione è diventata effettiva. Non mi arrendo e torno alla carica nel dicembre 2010 con una lettera con cui chiedo la reiscrizione all’Albo ai sensi dell’art. 42 c. 1 L. 69/63 che dispone “il giornalista cancellato dall'Albo può, a sua richiesta, essere riammesso quando sono cessate le ragioni che hanno determinato la cancellazione”. Ovviamente allego alla lettera le copie dei primi due numeri del giornale. Non ricevo risposta. Lo scorso ottobre è uscito il sesto numero di Pelo & Contropelo con la mia più grande soddisfazione visto i temi importantissimi che ho trattato (vivisezione, strage di elefanti in Africa, caccia ecc.). Il giornale, che ora ha diverse migliaia di lettori, dalla scorsa primavera è passato dalle iniziali quattro pagine alle attuali otto.
A questo punto è inevitabile una riflessione di carattere generale: così facendo l’Ordine dei Giornalisti di fatto limita l’esercizio della libertà di stampa. Un valore assolutamente da tutelare in una democrazia e che io ho potuto attuare solo grazie al fatto che ho trovato una pubblicista che ha accettato di ricoprire l’incarico di direttore responsabile di Pelo & Contropelo. Ma se non l’avessi trovata? Avrei dovuto rinunciare a dare informazioni sulla sofferenza degli animali, su argomenti che hanno un rilievo sociale e che interessano una buona parte della popolazione italiana.
La mia prima esperienza deludente con gli ordini professionali, risale però al 2003 quando, sostenuto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, tento di iscrivermi all’Albo degli Avvocati di Torino. Con tutte le più rosee speranze per il mio futuro professionale mi reco all’Ordine degli Avvocati e lì mi viene detto che, essendo dipendente della pubblica amministrazione, per iscrivermi all’Albo avrei dovuto chiedere il part-time al 50 per cento. Immediatamente presento all’Ente presso cui lavoravo l’istanza per la riduzione dell’orario al 50 per cento, che mi viene accordata senza difficoltà. Produco tutta la documentazione all’Ordine degli Avvocati, ma l’iscrizione viene respinta perché nel frattempo era stata emanata la norma che rendeva completamente incompatibile l’esercizio della professione di avvocato con l’impiego pubblico. Norma che riguarda tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, eccetto i docenti universitari che pur avendo un contratto di lavoro subordinato con un ente pubblico possono esercitare indisturbati la professione forense (sempre in palese violazione dell’art. 3 della Costituzione!). Anche in questo caso la deliberazione mi viene notificata tramite ufficiale giudiziario, tanto per enfatizzare un pochino il rigetto (non sembra ma vedersi arrivare a casa gli ufficiali giudiziari fa un certo effetto!). A questo punto, per esercitare la libera professione, non mi restava che rinunciare all’impiego pubblico, con ovvi problemi per il mio sostentamento, visto che quando si avvia un’attività in proprio, senza l’aiuto di nessuno, i guadagni non sono immediati, anzi spesso si fanno attendere non poco e qualche volta purtroppo non arrivano neanche. Scartata questa soluzione, nel mio caso impraticabile (a meno che nel frattempo non mi fosse capitato un pretendente facoltoso da sposare, come è stato suggerito simpaticamente da qualcuno tempo fa a tutte le giovani donne!), decido di avviare l’attività come semplice consulente legale, visto che ormai ero già in part-time e percepivo solo metà dello stipendio. Dentro di me penso «ci provo lo stesso». Ma è facilmente comprensibile come sia penalizzante non poter utilizzare il titolo di avvocato su biglietti da visita e lettere, senza poi considerare la totale preclusione al patrocinio legale. Il tentativo quindi fallisce e devo dire, viste le premesse alquanto scoraggianti, forse non è mai neanche partito! Questo però è un problema che riguarda solo gli avvocati, perché ingegneri, architetti, psicologi, giornalisti ecc. possono iscriversi senza problemi ai rispettivi albi professionali ed esercitare anche la libera professione, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni dall’ente pubblico presso cui lavorano. Per anni, infatti, sono stata iscritta a quello dei giornalisti pur lavorando nella pubblica amministrazione come impiegata amministrativa. C’è chi mi ha detto «potevi evitare di dichiarare all’Ordine degli Avvocati il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Sei stata poco furba». Mi chiedo perché per restare iscritta ad un albo professionale si sia quasi costretti a presentare carte false e per iscriversi ad un altro si debba omettere informazioni. Mi piace pensare che in Italia si possa ancora agire alla luce del sole, senza sotterfugi. Vorrei che fosse così per tutti.
Marinella Robba
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