di Enrico Bettini *
La vicenda
della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse ha assunto i
toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire,
oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. A prescindere dalla scelta
localizzativa del suddetto centro ( 5000 posti) posto all’interno della zona
centrale urbana e quindi, ancora una
volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per
risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e
culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione
logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del
piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce è la filosofia di fondo assurta ad ideologia:
“..il commercio sarà la leva economica
della trasformazione di Torino nei
prossimi anni..” in quanto “..non è
più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito
dell’amministrazione..”.
Dunque, non
c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al
principio che, per es., se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i
torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve.
Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli
effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima
assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali nei luoghi più convenienti per essi e, se
resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini
con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che
l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se
no, cesserebbe “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo
sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità
finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i
privati, come faremo?
Abbiamo
condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica
contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il
segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che,
anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a
processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni
urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo
chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali,
si prefiggano di condurre - in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la
profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione
urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale - deve diventare un punto specifico del programma
di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e
dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al
prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi
particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur
necessario, non deve in alcun modo essere condizionante lo sviluppo della città
che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)-
è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e
corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità
nelle scelte economiche.
L’idea che la città deve vendere ciò che ha per
sopravvivere o accettare programmi diversi e intrusivi rispetto a quelli previsti,
è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché
coordinare l’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il
superamento delle sue assurde regole. Al contrario, le risorse devono poter essere
accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a
debito,anche ricorrendo all’azionariato popolare) purché, in totale trasparenza,
devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il
compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale.
* Architetto, presidente
dell’associazione di architetti “Cittàbella”
Bisogna costruire case se serve per andarci ad abitare. Centri commerciali se ce n'è bisogno. Invece si costruisce per muovere cemento e pil senza rispetto per il territorio: basti vedere l'intenzione (spero che la crisi la impedisca) di distruggere il pascolo di Strada Della Pronda per farci un quartiere
RispondiElimina