di Gabriele
Polo *
Imprese che
chiudono, commesse perdute, lavoro che sparisce, politiche sbagliate. Un libro
e un viaggio nell’Italia “Affondata sul lavoro”, a partire da Torino
“Affondata
sul lavoro” (edizioni Ediesse, pag. 152, 12 euro) è un diario del viaggio
svolto da Gabriele Polo, tra giugno e novembre dello scorso anno, nell’Italia
del lavoro all’apice della grande crisi globale. Ne esce un ritratto impietoso
di un paese lacerato dal trionfo del liberismo in economia e del berlusconismo
in politica, nel nord-est del benessere ora in declino come nel Mezzogiorno
perennemente in bilico tra stasi e regressione. Del volume – in libreria da
aprile – anticipiamo qui un breve stralcio.
«Ho dovuto
chiudere, non riuscivo più a pagare stipendi e contributi. Negli ultimi tre
anni tutti hanno tagliato, nel 2012 gli ordini sono precipitati, il nostro
cliente principale era il Comune che rimanda i pagamenti di mese in mese.
Dicono che le casse del Municipio sono vuote». La sorte di questa piccola
impresa d'assistenza informatica (il cui titolare sta ora cercando di tramutare
in mestiere l'hobby del dj) è la stessa di decine di micro-aziende torinesi,
soprattutto del settore servizi, quello più legato al bilancio del Comune di
Torino, indebitato per oltre tre miliardi di euro e costretto un anno fa a
uscire dal «Patto di stabilità» imposto da Roma. «Un patto stupido» l'ha
bollato il sindaco Piero Fassino – poi si è corretto chiamandolo «cieco» – «perché
non distingue tra chi si indebita per spese correnti e chi lo fa per
investimenti. Torino, nell'ultimo decennio, ha cambiato faccia e ha posto le
basi per rifiorire dopo la fine della factory-town, con grandi investimenti
pubblici ed eventi promozionali, dal passante ferroviario alle Olimpiadi. La
città non è piegata dalla crisi, non subisce e trova negli investimenti
pubblici dell'ultimo ventennio le risorse per reagire», rassicura con orgoglio
resistenziale il sindaco. Anche se il «reagire» non sempre è gratificante,
considerati i fischi presi in un paio di uscite pubbliche, cosa inedita per un
primo cittadino torinese. E non erano quelli di Askatasuna, né la piazza no-tav
del Primo maggio, ma più miti genitori di bimbi iscritti a nidi comunali la cui
gestione è stata privatizzata.
Il punto è
che i grandi investimenti degli anni '90 e preolimpici – oltre 5 miliardi per
le sole opere, tra passante ferroviario e dintorni, metrò, impianti sportivi –
hanno lasciato una pesante scia di debiti e uno scarso «ritorno» economico,
hanno cambiato la faccia della città senza darle un nuovo orizzonte e una nuova
socialità. Così l'ultima grande opera in corso è un profondo buco di bilancio,
sempre più difficile da gestire in tempi di crisi. In assenza di nuove entrate
– scampato, grazie al «consolidamento» del debito, un disastro da derivati – e
con la drastica riduzione dei trasferimenti statali, per affrontare le spese
correnti e fronteggiare gli interessi non resta che tagliare la spesa e vendere
il patrimonio: il giro degli affari pubblici si sgonfia – traducendosi in meno
commesse e meno lavoro -, una parte dei servizi vanno privatizzati e vengono
vendute quote delle imprese partecipate (trasporti, rifiuti, aeroporto). Una
ricetta simile a quella messa in campo da tanti comuni italiani, complicata
dalla Spending review, qui aggravata dall'uscita dal Patto di stabilità. (...)
Il bilancio
2012 sarà salvato dall'Imu – grazie all'aliquota record del 5,75% – e, in linea
col 2011, dal taglio di tutte le voci di spesa tranne quella per gli interessi
sul debito contratto con le grandi opere, 250 milioni di euro, cifra che ogni
anno è superiore a quanto si investe in servizi e assistenza e non molto
distante dalla principale uscita municipale, i 400 milioni per gli stipendi
degli 11.000 dipendenti. La giunta guidata da Piero Fassino conta di ridurre il
debito (3,4 miliardi, ma i feroci grillini parlano di 4,5 miliardi
aggiungendoci i debiti delle partecipate), gestire il bilancio e rientrare nel
patto di stabilità raccogliendo tra i 300 e i 350 milioni dalle dismissioni: in
vendita il 49% di Sagat (aeroporto), Gtt (trasporti), Amiat (rifiuti) e l'80%
dell'inceneritore. Quest'ultima è la vendita più spinosa, perché è
sostanzialmente la privatizzazione di una cosa tanto delicata (quanto
profittevole) come un termovalorizzatore. Scelta che ha visto l'opposizione
netta dei grillini e fatto venire il mal di pancia a più d'uno degli esponenti
della maggioranza, con l'astenzione di Idv e Sel: «La regressione del sistema
pubblico – spiega Michele Curto, capogruppo dei vendoliani – è un pericoloso
segnale d'allarme, una via di fuga per non ammettere e affrontare le gravi
difficoltà della città. L'inceneritore privatizzato, poi, è davvero un pericolo
per la sicurezza dei cittadini».
Sulle
dismissioni nutre qualche riserva lo stesso amministratore delegato dell'Amiat,
Maurizio Magnabosco e non non certo per motivi ideologici: «Il pubblico
dovrebbe proporsi di gestire la parte più ricca del mercato dei rifiuti, che –
tra le altre cose – richiede una certa competenza e una cultura del lavoro che
Torino porta in dote. Come Amiat possiamo essere molto competitivi, non solo in
Italia». Eleonora Artesio, ex assessore alla sanità nella giunta Bresso, ora
consigliere regionale del Prc, denuncia come «il debito provocato da
investimenti passati, nell'illusione di poter rimpiazzare la città-fabbrica con
quella del loisir, ha determinato una nuova illusione, quella che si possa
garantire il controllo pubblico dei servizi affidandone a terzi la gestione.
Non è così, perché se il pubblico non mantiene almeno una parte della gestione,
alla fine saranno i terzi a dirgli cosa fare». Perplessità e contrarietà
diffuse, che Fassino affronta a muso duro: «Questa è l'unica strada e le nostre
non sono svendite. Del resto non c'è nessun piano B. Se non raccogliamo 300
milioni in quel modo, dovremo tagliare sui servizi, cosa che finora non abbiamo
fatto».
Le
ripercussioni del debito sulla città non si limitano alla gestione diretta del
bilancio e dell'azienda comunale. Ne sanno qualcosa 300 insegnanti e 700
bambini di 9 nidi comunali «esternalizzati». Con l'uscita dal Patto di
stabilità il Comune non può più sottoscrivere nuovi contratti, quelle 300
maestre precarie non possono più essere ingaggiate e per questo i «loro» 700
bambini saranno accuditi dai dipendenti di due cooperative, almeno per i
prossimi tre anni. Le esternalizzazioni hanno provocato parecchio malumore in
una città all'avanguardia nelle politiche per l'infanzia, mentre il Comune
annunciava pure il rinvio di una settimana dell'apertura delle scuole materne e
delle mense scolastiche per poter risparmiare altri 200.000 euro. Così sono
arrivati i fischi per Fassino, nonostante la garanzia sulla «continuità del
servizio» e sulla professionalità del personale. «Settecento bambini – dice
Silvia Bodoardo del Coordinamento genitori – rientreranno in un ambiente
sconosciuto, senza le precedenti figure di riferimento. Inoltre hanno mollato
gli asili migliori, spiegando la scelta col fatto che lì si pagano rette più
alte. Insomma, si vendono le cose migliori...».
* da sbilanciamoci.info 12 marzo 2013
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