domenica 12 gennaio 2014

Torino: Il Supermercato dell’urbanistica


di Enrico Bettini * 
La vicenda della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse ha assunto i toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire, oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. A prescindere dalla scelta localizzativa del suddetto centro ( 5000 posti) posto all’interno della zona centrale urbana e quindi,  ancora una volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce  è la filosofia di fondo assurta ad ideologia: “..il commercio sarà la leva economica della trasformazione di  Torino nei prossimi anni..” in quanto “..non è più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito dell’amministrazione..”. 
Dunque, non c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al principio che, per es., se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve. Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali  nei luoghi più convenienti per essi e, se resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se no, cesserebbe  “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i privati, come faremo? 
Abbiamo condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che, anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali, si prefiggano di condurre - in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale - deve diventare un punto specifico del programma di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur necessario, non deve in alcun modo essere condizionante lo sviluppo della città che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)- è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità nelle scelte economiche.
L’idea che la città deve vendere ciò che ha per sopravvivere o accettare programmi diversi e intrusivi rispetto a quelli previsti, è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché coordinare l’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il superamento delle sue assurde regole. Al contrario, le risorse devono poter essere accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a debito,anche ricorrendo all’azionariato popolare) purché, in totale trasparenza, devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale.

* Architetto, presidente dell’associazione di architetti “Cittàbella”

1 commento:

  1. Bisogna costruire case se serve per andarci ad abitare. Centri commerciali se ce n'è bisogno. Invece si costruisce per muovere cemento e pil senza rispetto per il territorio: basti vedere l'intenzione (spero che la crisi la impedisca) di distruggere il pascolo di Strada Della Pronda per farci un quartiere

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