mercoledì 27 marzo 2013

Vox populi



di Marco Revelli *

La prima volta da maggioritari. La Valle registra il nuovo status senza fare una piega, con invidiabile aplomb, mettendo in campo la moltitudine variegata e compatta di sempre. Un fiume ininterrotto di gente che riempie tutti gli otto chilometri che separano Susa da Bussoleno, la stessa impressionante folla dello scorso anno, quando se ne contarono cinquantamila. Forse di più. Ma, appunto, stesse espressioni rilassate e determinate di prima. Stessa sensazione piacevole di appartenenza. Stessa composizione multigenerazionale, con madri e figlie, nonni e nipoti, nuclei famigliari magari divisi su altro ma uniti da questo. Non la forma segmentata e gergale della mobilitazione politica, ma quella inclusiva e popolare di un’espressione di territorio. Al comizio finale, il primo intervento non è stato di un leader politico, e neppure di un amministratore (che pure sono numerosi), ma del padre di Nicolas, uno dei bambini feriti dall’esplosione di un residuato bellico. E ha parlato dell’amicizia.

Eppure lo scenario è cambiato. Politicamente. I valsusini non sono più l’isola ribelle di irriducibili, chiusi nella loro valle. Mondo alla rovescia, ridotto dentro il confine della Chiusa di San Michele. Ora la loro causa è uno dei primi punti del programma del partito di maggioranza relativa. La prova vivente della rivoluzione copernicana in corso, quasi che la loro rivoluzione locale si fosse rivelata, di colpo, stato d’animo generale. Per avere però la misura di questa svolta, è al mattino che bisogna guardare. La discontinuità radicale prodotta dal voto di febbraio sta tutta nell’immagine di Luca Abbà, che entra nel cantiere fortificato di Chiomonte scortato dalla stessa polizia che due anni or sono l’aveva inseguito su quel maledetto traliccio. E con lui entrano Lele di Askatasuna, Alberto Perino e gli altri, fino a ieri indicati come «pericoli pubblici», oggi «consulenti delle istituzioni», chiamati ufficialmente «assistenti» dei 68 deputati e senatori venuti a ispezionare il «sito strategico». Mentre Stefano Esposito, l’esponente pd pasdaran del Tav, che fino a ieri aveva monopolizzato la rappresentanza istituzionale, appare improvvisamente periferico, quasi il residuo di un cantiere avviato su un binario morto.

Ci si sarebbe potuti aspettare che, in queste circostanze, la politica divorasse il proprio popolo. Che il corteo traboccasse di bandiere cinque stelle (del partito che in valle ha stravinto le elezioni). Che fosse aperto dalla schiera di nuovi eletti. E invece niente. Il serpentone era preceduto da un delizioso trenino carico di bambini. E non trovavi una sola bandiera a cinque stelle nemmeno a cercarla col lanternino, a dimostrazione di una notevole intelligenza politica dei cosiddetti «grillini». I quali hanno evidentemente capito che un popolo, anzi una «popolazione» (al femminile), non lo si rappresenta mettendoci sopra il cappello, né marchiandolo con i propri simboli, ma lo si ascolta in silenzio. E che è molto meglio confondersi tra di esso anziché distinguersene con l’ostentazione di un’identità estranea, al contrario degli estremi residui delle formazioni vetero-comuniste, fastidiosamente chiusi nelle loro bandiere come in una corazza medievale, testimonianza di una testarda volontà di non capire.

Certo è che visto di qui, da questo «margine», lo tsunami che ha terremotato la politica italiana lo si capisce molto meglio, scaturito non da un palco da comizio, o dalla testa di un leader, e nemmeno dalla «rete», ma da una pressione tellurica di gente che non ne può più di espropriatori, monopolizzatori (interessati) della scelta e dei beni collettivi, decisori dall’alto.
Un solo slogan attraversava trasversalmente il corteo, vero comun denominatore tra generazioni, professioni, sensibilità, religioni…: «Giù le mani dalla val Susa» e, scritto sugli striscioni: «Difendiamo il nostro futuro». Sono evidentemente milioni gli elettori che vogliono che si tengano giù le mani dai «beni comuni» (a cominciare dall’habitat) e dal loro futuro. E tanto basta per spiegare un successo.

* da ilmanifesto.it , 24 marzo 2013

giovedì 14 marzo 2013

Torino, la vita al tempo del debito



di Gabriele Polo *

Imprese che chiudono, commesse perdute, lavoro che sparisce, politiche sbagliate. Un libro e un viaggio nell’Italia “Affondata sul lavoro”, a partire da Torino

“Affondata sul lavoro” (edizioni Ediesse, pag. 152, 12 euro) è un diario del viaggio svolto da Gabriele Polo, tra giugno e novembre dello scorso anno, nell’Italia del lavoro all’apice della grande crisi globale. Ne esce un ritratto impietoso di un paese lacerato dal trionfo del liberismo in economia e del berlusconismo in politica, nel nord-est del benessere ora in declino come nel Mezzogiorno perennemente in bilico tra stasi e regressione. Del volume – in libreria da aprile – anticipiamo qui un breve stralcio.

«Ho dovuto chiudere, non riuscivo più a pagare stipendi e contributi. Negli ultimi tre anni tutti hanno tagliato, nel 2012 gli ordini sono precipitati, il nostro cliente principale era il Comune che rimanda i pagamenti di mese in mese. Dicono che le casse del Municipio sono vuote». La sorte di questa piccola impresa d'assistenza informatica (il cui titolare sta ora cercando di tramutare in mestiere l'hobby del dj) è la stessa di decine di micro-aziende torinesi, soprattutto del settore servizi, quello più legato al bilancio del Comune di Torino, indebitato per oltre tre miliardi di euro e costretto un anno fa a uscire dal «Patto di stabilità» imposto da Roma. «Un patto stupido» l'ha bollato il sindaco Piero Fassino – poi si è corretto chiamandolo «cieco» – «perché non distingue tra chi si indebita per spese correnti e chi lo fa per investimenti. Torino, nell'ultimo decennio, ha cambiato faccia e ha posto le basi per rifiorire dopo la fine della factory-town, con grandi investimenti pubblici ed eventi promozionali, dal passante ferroviario alle Olimpiadi. La città non è piegata dalla crisi, non subisce e trova negli investimenti pubblici dell'ultimo ventennio le risorse per reagire», rassicura con orgoglio resistenziale il sindaco. Anche se il «reagire» non sempre è gratificante, considerati i fischi presi in un paio di uscite pubbliche, cosa inedita per un primo cittadino torinese. E non erano quelli di Askatasuna, né la piazza no-tav del Primo maggio, ma più miti genitori di bimbi iscritti a nidi comunali la cui gestione è stata privatizzata.

Il punto è che i grandi investimenti degli anni '90 e preolimpici – oltre 5 miliardi per le sole opere, tra passante ferroviario e dintorni, metrò, impianti sportivi – hanno lasciato una pesante scia di debiti e uno scarso «ritorno» economico, hanno cambiato la faccia della città senza darle un nuovo orizzonte e una nuova socialità. Così l'ultima grande opera in corso è un profondo buco di bilancio, sempre più difficile da gestire in tempi di crisi. In assenza di nuove entrate – scampato, grazie al «consolidamento» del debito, un disastro da derivati – e con la drastica riduzione dei trasferimenti statali, per affrontare le spese correnti e fronteggiare gli interessi non resta che tagliare la spesa e vendere il patrimonio: il giro degli affari pubblici si sgonfia – traducendosi in meno commesse e meno lavoro -, una parte dei servizi vanno privatizzati e vengono vendute quote delle imprese partecipate (trasporti, rifiuti, aeroporto). Una ricetta simile a quella messa in campo da tanti comuni italiani, complicata dalla Spending review, qui aggravata dall'uscita dal Patto di stabilità. (...)
Il bilancio 2012 sarà salvato dall'Imu – grazie all'aliquota record del 5,75% – e, in linea col 2011, dal taglio di tutte le voci di spesa tranne quella per gli interessi sul debito contratto con le grandi opere, 250 milioni di euro, cifra che ogni anno è superiore a quanto si investe in servizi e assistenza e non molto distante dalla principale uscita municipale, i 400 milioni per gli stipendi degli 11.000 dipendenti. La giunta guidata da Piero Fassino conta di ridurre il debito (3,4 miliardi, ma i feroci grillini parlano di 4,5 miliardi aggiungendoci i debiti delle partecipate), gestire il bilancio e rientrare nel patto di stabilità raccogliendo tra i 300 e i 350 milioni dalle dismissioni: in vendita il 49% di Sagat (aeroporto), Gtt (trasporti), Amiat (rifiuti) e l'80% dell'inceneritore. Quest'ultima è la vendita più spinosa, perché è sostanzialmente la privatizzazione di una cosa tanto delicata (quanto profittevole) come un termovalorizzatore. Scelta che ha visto l'opposizione netta dei grillini e fatto venire il mal di pancia a più d'uno degli esponenti della maggioranza, con l'astenzione di Idv e Sel: «La regressione del sistema pubblico – spiega Michele Curto, capogruppo dei vendoliani – è un pericoloso segnale d'allarme, una via di fuga per non ammettere e affrontare le gravi difficoltà della città. L'inceneritore privatizzato, poi, è davvero un pericolo per la sicurezza dei cittadini». 

Sulle dismissioni nutre qualche riserva lo stesso amministratore delegato dell'Amiat, Maurizio Magnabosco e non non certo per motivi ideologici: «Il pubblico dovrebbe proporsi di gestire la parte più ricca del mercato dei rifiuti, che – tra le altre cose – richiede una certa competenza e una cultura del lavoro che Torino porta in dote. Come Amiat possiamo essere molto competitivi, non solo in Italia». Eleonora Artesio, ex assessore alla sanità nella giunta Bresso, ora consigliere regionale del Prc, denuncia come «il debito provocato da investimenti passati, nell'illusione di poter rimpiazzare la città-fabbrica con quella del loisir, ha determinato una nuova illusione, quella che si possa garantire il controllo pubblico dei servizi affidandone a terzi la gestione. Non è così, perché se il pubblico non mantiene almeno una parte della gestione, alla fine saranno i terzi a dirgli cosa fare». Perplessità e contrarietà diffuse, che Fassino affronta a muso duro: «Questa è l'unica strada e le nostre non sono svendite. Del resto non c'è nessun piano B. Se non raccogliamo 300 milioni in quel modo, dovremo tagliare sui servizi, cosa che finora non abbiamo fatto».

Le ripercussioni del debito sulla città non si limitano alla gestione diretta del bilancio e dell'azienda comunale. Ne sanno qualcosa 300 insegnanti e 700 bambini di 9 nidi comunali «esternalizzati». Con l'uscita dal Patto di stabilità il Comune non può più sottoscrivere nuovi contratti, quelle 300 maestre precarie non possono più essere ingaggiate e per questo i «loro» 700 bambini saranno accuditi dai dipendenti di due cooperative, almeno per i prossimi tre anni. Le esternalizzazioni hanno provocato parecchio malumore in una città all'avanguardia nelle politiche per l'infanzia, mentre il Comune annunciava pure il rinvio di una settimana dell'apertura delle scuole materne e delle mense scolastiche per poter risparmiare altri 200.000 euro. Così sono arrivati i fischi per Fassino, nonostante la garanzia sulla «continuità del servizio» e sulla professionalità del personale. «Settecento bambini – dice Silvia Bodoardo del Coordinamento genitori – rientreranno in un ambiente sconosciuto, senza le precedenti figure di riferimento. Inoltre hanno mollato gli asili migliori, spiegando la scelta col fatto che lì si pagano rette più alte. Insomma, si vendono le cose migliori...».

 * da sbilanciamoci.info   12 marzo 2013

lunedì 4 marzo 2013

Nessuna penale da pagare se si rinuncia al TAV Torino-Lione



L'architetto Virano, commissario del Governo per la Torino-Lione, messo in difficoltà dall'esito delle elezioni, ha creduto opportuno dire che, nel caso di rinuncia a costruire la linea, l'Italia dovrebbe pagare una penale di un miliardo e seicento milioni di euro.
La tesi è priva di fondamento: l’articolo 3.4.1. del contratto di finanziamento stipulato tra l’Unione Europea, ed i governi Italiano e Francese il 5 dicembre 2008 dice che: “Il beneficiario del contributo può sospendere i lavori se vi sono circostanze eccezionali che li rendono impossibili od eccessivamente difficoltosi, in modo particolare in caso di forza maggiore”.
In questo caso, come specificato nel paragrafo seguente, se i lavori non riprendono entro due anni, dalla data originariamente prevista, l’Unione Europea cancellerà il contributo.
La restituzione dell’aiuto europeo erogato dal contratto, è ammessa come possibilità, ma è estremamente difficile che l’Unione Europea voglia gravare su Italia e Francia che hanno già un saldo negativo nei suoi confronti e, comunque, l’Unione Europea si è sempre dimostrata estremamente benevola nelle clausole del contratto.

In ogni caso, anche se manca un aggiornamento da parte della Direzione Generale TEN-T dell’Unione Europea, che si attende per i prossimi giorni, la cifra in questione sarebbe meno di 100 milioni in totale per i due paesi. I contributi precedenti al 2007 sono stati dati come stanziamenti e sono ben oltre i quattro anni in cui potrebbero esserci ripensamenti.
Niente da pagare, invece per la liquidazione di LTF che era in calendario già per il 31 gennaio 2010, e per la cui chiusura il piano finanziario non prevede spese specifiche.

Per quanto riguarda i nostri rapporti con la Francia, il costo sostenuto sino ad oggi per la Torino-Lione è poco più di 800 milioni, così ripartiti: poco più del 30% ciascuno, rispettivamente per Italia e Francia, e circa il 40% a carico della Unione Europea.
Di questi:
1. Il 55% sono i costi delle tre discenderie fatte in Francia.
2. Il 3% sono spese per i sondaggi ed il cantiere della Maddalena fatti in Italia.
3. Il 40% sono i costi di progettazione in Italia e Francia e la direzione dei lavori in Francia.
Come si vede, le spese per lavori fatti in Francia, e pagati in parti uguali dai due paesi, al netto del contributo europeo, sono state quasi 20 volte maggiori di quelle fatte in Italia, anche grazie ad aumenti di costi pesantissimi e probabilmente discutibili.
In caso di chiusura sarebbe certamente difficile chiedere alla Francia un riequilibrio per quanto è stato speso, perché la gestione comune della CIG (Commissione Inter Governativa) permette molta elasticità, ma i 112 milioni stanziati originariamente per la discenderia di Venaus ed incamerati da LTF per finire quella di Modane, andrebbero quasi tutti restituiti all’Italia.

Anche l’affermazione del commissario del Governo, Virano, che “sarebbe un peccato rinunciare ad un’opera che per il 65% è pagata da altri” merita di essere riportata alla realtà.
La percentuale di contributo europeo che Virano continua ad immaginare del 40%  è ancora del tutto ipotetica, ricordando che l’Unione Europea dispone, per i lavori veri e propri, dei finanziamenti molto più bassi rispetto a quelli fissati per “studi e progetti”. Poi Virano divide la parte restante (nella sua ipotesi) tra Italia e Francia secondo le percentuali stabilite del 58% all’Italia e 42% alla Francia: con questo calcolo si arriva al 35% detto.
Ma Virano dimentica di dire che dei circa 60 Km di galleria e parte comune, l’Italia ne ha nel suo territorio solo il 20%.
Quindi l’Italia pagherebbe il 35%, e anche per i quattro quinti dei costi dell’opera che è sul territorio francese: non è certo un buon affare... Ed è un caso più unico che raro!

Non rimane che augurarci che il prossimo Parlamento voti quella proposta di Legge che comporta la responsabilità civile dei funzionari e delle autorità politiche che, per i settori di loro competenza, danno cifre manifestamente con corrette, espresse in modo da ingenerare inganno nel pubblico e produrre con questo la deviazione dell’utilizzo delle risorse dello Stato.

( ProNatura Piemonte )